Sto pensando di finirla qui | Recensione
La giovane Lucy viene portata dal fidanzato Jake a conoscere i genitori di lui, che abitano in una fattoria isolata. Durante il viaggio, Lucy rimugina tra sé la sua intenzione di "farla finita". Nonostante il carattere aperto e cortese dei genitori di Jake, la permanenza di Lucy in casa loro assume dei tratti sempre più spiacevoli e terrificanti.

Regia:Charlie Kaufman
Attori:Toni Collette, Jesse Plemons, Jessie Buckley, David Thewlis, Jason Ralph, Colby Minifie, Abby Quinn, Guy Boyd
Paese:USA
Durata:134 min
Distribuzione:Netflix
Sceneggiatura:Charlie Kaufman
Fotografia:Lukasz Zal
Montaggio:Robert Frazen
Musiche:Jay Wadley
Produzione:Likely Story
Recensione:
Data di uscita in Italia 🗓️: 5 dicembre 2019
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Voto: 8,5 / 10
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Genere📽: Horror,Drammatico
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Pro🔝: Sto pensando di finirla qui, regia e sceneggiatura di Charlie Kaufman, è
stato pubblicato su Netflix il 4 settembre. Il regista statunitense ha già vinto un
Oscar per la migliore sceneggiatura originale per il celeberrimo The eternal
sunshine of a spotless mind, con il quale guadagna la fama di cineasta contorto,
a volte criptico. Con Sto pensando di finirla qui, tratto dall’omonimo romanzo di
Ian Reid, la storia non cambia.
Apparentemente, la trama del film è molto semplice: Lucy, una giovane e
brillante studentessa di gereantologia, accetta malvolentieri di andare a trovare
la famiglia del suo ragazzo, Jake. Fino a qui potrebbe ricordare Ti presento i
miei ma già dal viaggio in macchina ci accorgiamo che i toni sono ben diversi.
Per raggiungere la sperduta fattoria dei genitori di Jake, i due dovranno
attraversare una tempesta di neve su una strada tanto lunga quanto tediosa. Ci
viene mostrato senza alcuna interruzione il lunghissimo dialogo tra i due, fatto
di imbarazzati silenzi intermezzati dallo stridere costante del tergicristalli nel
vetro dell’auto. Ciò che Kaufman vuole farci sapere filtra attraverso la voce
narrante di Lucy che, mentre Jake cerca di improvvisare una maldestra
conversazione su Wordsworth, sta pensando di finirla lì (con il loro rapporto o
con la sua vita?): l’incomunicabilità sarà uno dei temi portanti del film.
Il patto narrativo di verosimiglianza a cui ogni spettatore aderisce si
spezzerà definitivamente dopo un’ora circa di visione, nella casa degli anziani
coniugi che riescono a catturare rapidamente lo schermo con i loro tic nervosi e
le loro risate folli; interpretati magistralmente da Toni Colette (Hereditary) e
David Thewlis (il professor Lupin di Harry Potter), contribuiscono a creare
un’atmosfera inquietante e ipnotica, accentuata dall’uso di colori smorti, quasi
divorati dall’inesorabilità del tempo. Le battute che si scambiano i quattro
protagonisti, oltre ad essere accomunate dall’incomunicabilità, lasciano
percepire il genio di Kaufman sceneggiatore, bravo ad alternare i silenzi ad una
verbosità malata.
Il sospetto nello spettatore è alimentato dai tempi narrativi estremamente
diluiti che da un lato rendono imprevedibile la prossima svolta narrativa,
dall’altro gettano nel panico chi cerca di porre su questo film la comoda
etichetta di un genere che lo possa aiutare nel decifrare l’enigma delle sue
lunghe sequenze, il tempo che passa lasciandoci inermi, da soli e con mille
domande.
Il pregio più grande di questo film, però è senz’altro l’audacia con cui
intende confrontarsi con il vuoto di senso dell’esistenza e, a proposito, una delle
tante frasi pensate da Lucy nel lungo viaggio in macchina, potrebbe servire a
inquadrare questa tematica esistenziale: «Tutto deve morire. È la verità. Ci piace
pensare che ci sia sempre speranza, che si possa vivere oltre la morte. È una
fantasia esclusivamente umana, sperare che le cose andranno meglio, nata forse
dalla consapevolezza esclusivamente umana che niente andrà meglio. Non c'è
modo di saperlo con certezza. Ma sospetto che gli esseri umani siano gli unici
animali a conoscere l'inevitabilità della loro morte. Gli altri animali vivono nel
presente. Gli umani non possono e così hanno inventato la speranza». Ma
aspettate a considerare frasi come queste una chiave interpretativa del film.
Kaufman si è assicurato che solo una partecipazione attiva degli spettatori agli
eventi possa rivelare il significato nascosto tra le pieghe di questo lungo incubo.
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Contro❌: Italo Calvino sosteneva che quando un intellettuale tenta di dire la
sua sull’aporia che governa il nostro esistere si trova davanti un labirinto da
sfidare. Bisogna trovare il giusto angolo di ripresa, il giusto ingresso e provare
ad immaginare un’uscita e, forse, il difetto più grande del progetto di Kaufman è
che nel labirinto è troppo facile perdersi. Nessun filo di Arianna viene steso per
venire in soccorso agli spettatori anche solo leggermente distratti e anzi, il
regista statunitense si diverte a seminare molliche per portarci fuori strada. Il
risultato è una pellicola difficile da decifrare, spesso autoriflessiva che necessita
di una seconda visione per andare oltre un sentimento di malinconia
immediatamente percepibile.
Kaufman invita il proprio pubblico a non abbandonarsi lascivo allo scorrere
del tempo e ad attivare le nostre doti interpretative per acquisire almeno la
consapevolezza che quel labirinto esiste e non possiamo ignorarlo.
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Recensione a cura di Matteo Angelica
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Grafica a cura di Giulia Federici
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