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Achilles: Iran, le crepe nel muro della censura

I muri parlano, urlano forte e l’Iran, con il suo cinema, non ne può più, non li tollera più.

E’ questa la dedica che Farhad Delaram, al suo esordio cinematografico, fa con questo film. Un film che analizza il contesto sociopolitico iraniano e lo sfida senza aver paura di fuggire.

Data di uscita: N.D.

Genere: Drammatico

Anno: 2023

Durata: 116 min

Regia: Farhad Delaram

Attori: Mirsaeed Molavian, Behdokht Valian, Roya Afshar, Neda Aghighi, Firouz Agheli

Paese: Francia, Germania, Iran

Distribuzione: Visit Films

Sceneggiatura: Farhad Delaram

Fotografia: Mohammad Reza Jahanpanah

Produzione: Saeed Shahsavari, Frieda Oberlin, Johannes Suhm, Caroline Nataf

Casa di produzione: Basis Berlin Filmproduktion, Barrieri Filmproduktion, Unité, Saeed Shahsavari (IR), GalanGedan Film Production (IR)

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Farid, soprannominato Achilles, è un’ex cineasta iraniano che ora fa dei turni di assistenza ortopedica in un’ospedale a Teheran. Una notte viene chiamato al piano superiore per assistere al polso di una paziente che si trova nel reparto psichiatrico. Hedieh lamenta un forte dolore, che non è solo fisico, ma soprattutto mentale vista la sua evidente apatia.

Il protagonista cercherà di aiutarla a dormire meglio essendo che la donna si era anche lamentata, precedentemente, del rumore emesso dai muri, che secondo quella parlano di continuo. Interessante vedere anche il punto di vista della sua compagna di stanza, che conferma la tesi ribadita prima. Allora Farid, che ci creda o meno, prova quasi pietà per le due e decide di portare uno scotch e, in una sequenza magistrale, vediamo questi tre personaggi impegnati a mettere lo scotch sulle pareti. Lo spettatore non sa ancora qual è il ruolo del muro all’interno del film e all’interno della lotta sociopolitica contro il governo iraniano, per questo rimane un attimo stranito, pensando quasi di star vedendo un thriller psicologico, ma che in realtà è un’Opera di grande realismo, contaminata da un po’ di fantascienza (usata a livello psicologico sì), non altro che un ottimo uso di metafore e simbolismi.

Sin da subito Delaram vuol evidenziare l’oppressore del governo iraniano che opera nei confronti del suo stesso popolo e allora lo spettatore riceve il primo colpo di scena: la paziente psichiatrica, Hedieh, è una rifugiata politica costretta a vivere la sua vita in un letto di ospedale in cui i muri (che possono essere anche le donne che sorvegliano la stanza) ascoltano ogni suo singolo movimento.

E’ un inizio inquietante sia nella scrittura che nella regia. I piani sequenza che portano Farid a vagare nell’ospedale con un volto sospeso e una scenografia perfetta, che simboleggia il degrado dell’ospedale iraniano, aggiungono una valenza terrificante ad un dramma contemporaneo, ritratto anche da una fotografia cupa, piena di contrasti e ombre che incombono sui volti dei personaggi.

Seguirà una fuga con protagonisti Farid ed Hedieh, l’uno si lascia alle spalle il niente della sua vita da assistente ospedaliero, divorziato con la moglie e nomade da una vita, l’altra si lascia alle spalle la propria gabbia, il letto d’ospedale a cui era incatenata. Il secondo atto è una sorta di road movie che da Teheran arriverà fino ai confini con la Turchia, passando per Shabestar e il Mar Caspio.

Farid saluta il padre, o meglio si reca di nuovo a casa dopo molto tempo per prendere le chiavi di una seconda casa dove sarebbe andato con Hedieh per proteggerla e, a questo punto, proteggersi essendo obiettivamente il complice di questa pericolosissima fuga. Sul punto di partenza, però, Delaram ci regala una delle sequenze più significative: Farid viene abbracciato dal padre, un gesto mai compiuto fino a quel momento, quasi a simboleggiare un orgoglio che questo mostrava nei confronti del figlio per l’atto che stava compiendo, estremamente pericoloso quanto importante. Con il protagonista, la donna sembra ora vivere un momento di parziale felicità condito da un forte senso di libertà mai assaporato fino a quel momento. Torna a vedere le bellezze di quella terra: valli e colline sconfinanti che la accolgono, mari limpidi e amichevoli che la abbracciano.

I due si raccontano e scopriamo che Hedieh crede di aver ucciso sua figlia avendola lasciata all’aeroporto, da qui le sue crisi esistenziali e psicotiche che la assalgono quotidianamente. L’obiettivo, generoso, di Farid sarà quello di riavvicinarla più possibile alla figlia e in un certo senso ci riuscirà. La frase che più mi ha colpito nel film è recitata proprio dal personaggio di Farid e mi fa riflettere sul finale <<Qualunque cosa tu faccia sei solo un servo, non puoi cambiare nulla al mondo>>. E’ una frase pessimista in contrasto col finale, non che quest’ultimo sia tanto speranzoso per il futuro dell’Iran, ma è da analizzare.

C’è, infatti, l’ultimissima immagine che denota l’impegno dell’uomo contemporaneo, dell’individualità che si fa comunità, che vuol irrompere e distruggere i muri che il sistema politico, corrotto e opprimente, impone al popolo iraniano. E’ questo il simbolo della resistenza, della resilienza che Delaram mette in scena in modo magistrale.

E’ il classico film iraniano che trae tanti spunti dal suo celebre maestro Abbas Kiarostami o ancora il riferimento nella sequenza del mare a “Stranger and The Fog” di Bahram Beyzaie del 1976, ma un film innovativo nel panorama europeo e internazionale di oggi soprattutto per la presenza nella Festa del Cinema di Roma 2023.

La protesta è forte, con una sceneggiatura a volte troppo insistente su alcuni temi, poco su altri, ma resta una validissima storia-esempio o topos del cinema iraniano, che evidenzia la difficoltà di vita all’interno di una società del genere.

Proprio i muri iniziali sono i protagonisti del finale, Delaram cerca di far respirare lo spettatore ansimante negli ultimi frame per gli ultimi avvenimenti, le crepe di quei muri arriveranno e sarà la piena libertà ad accogliere l’uomo che ha sempre resistito, anche sacrificando se stesso.

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