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The Midnight Club: la recensione della nuova serie di Mike Flanagan

In un sinistro maniero che ospita malati terminali, un gruppo di ragazzi si riunisce ogni sera a mezzanotte per raccontarsi delle storie, con il proposito di mandare un segnale dall’aldilà ai loro amici quando verrà il loro momento dell’incontro con la morte.



Voto: 7


“A quelli prima e a quelli dopo, a noi ora e a quelli oltre. Visibili o non visibili, qui ma non qui”. Questo il motto con il quale si apre ogni riunione del Midnight Club, una congrega di narratori che si propone di accogliere al suo interno membri non esattamente appartenenti alla realtà tangibile. I fantasmi e il soprannaturale sono elementi che hanno caratterizzato le ultime opere di Mike Flanagan, a partire da The Haunting of Hill House fino a Midnight Mass, passando per The Haunting of Bly Manor. In Midnight Club gli infestatori della Brighthlife, il lussuoso ricovero dove i nostri protagonisti passano volontariamente le loro ultime ore, fanno capolino solo occasionalmente e il loro minutaggio su schermo è davvero basso. Tanto che ci si chiede se questa serie possa essere considerata realmente horror o soltanto una storia di mistero con elementi da teen drama. Per quanto possiamo sforzarci di far rientrare questa serie in un genere o nell’altro, Flanagan ha creato un prodotto che a partire dalla sua struttura polifonica sembra rifuggire qualsiasi categoria. Come i giovani che nel Decameron si raccontavano storie per eludere la morte, così i membri del Midnight Club cercano di sopravvivere abbastanza a lungo per sentire ogni notte una storia nuova. Ognuno dei ragazzi, nei dieci episodi che compongono la miniserie, diventa narratore di una storia che mescola sapientemente elementi che potrebbero verosimilmente dirci qualcosa riguardo al passato dei personaggi che conosciamo, con altri di completa finzione. I generi sono i più diversi ma tutti sono imbevuti della tematica principale di questa serie, ovvero la morte e il modo in cui gli esseri umani creano costrutti, ideologie o storie per darle un volto, un significato, una spiegazione razionale.



La forza dei protagonisti della vicenda risiede proprio in quel fascino unico che aleggia intorno al narratore di una storia. Proprio come i membri del Midnight Club, anche noi spettatori ascoltiamo con piacere i racconti, accordando fiducia e tempo ad ognuno di quei ragazzi. La crepa più grande all’interno di una struttura narrativa così classica ma al tempo stesso originale per una serie contemporanea, si crea laddove abbandoniamo la comunità di narratori per dedicarci alla Brightlife e al suo passato. Mike Flanagan è un maestro nel rendere la scenografia in cui si svolgono gli eventi tanto protagonista quanto chi la abita, basti considerare le due storie di Hill House e Bly Manor. In questo caso è solo durante i primi episodi che si può sospettare che questo maniero possa rivestire un ruolo importante nella storia ma il finale sceglie deliberatamente di lasciare sospeso il mistero sulla natura soprannaturale di Brightlife. Il fotogramma finale non basta a riequilibrare i tempi narrativi, fin troppo sbilanciati verso i ragazzi. Ciò che non convince non sono le storie che trovano una conclusione nel finale, ma quel moralismo ormai disturbante che gli sceneggiatori avrebbero potuto far scivolare nel non detto per lasciare che ognuno degli spettatori traesse le proprie conclusioni etiche sugli intrecci.

Midnight Club abbandona le dimensioni apocalittiche e l’horror spinto di Midnight Mass per concentrarsi su una dimensione diversa, la zona liminale tra vita e morte, in cui le storie giocano un ruolo fondamentale; quello di aggregare, evadere e durare oltre i confini del qui e ora.



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