Empire of the Light | La luce e il cinema.
Tre anni dopo 1917 Sam Mendes torna sul grande schermo con il più intimo Empire of the Light.

Nell'Inghilterra degli anni ‘80, in un cinema della costa settentrionale, Hilary (Olivia Colman) vive la sua vita con apatia, cercando di riacquistare normalità dopo una crisi depressiva.
A sconvolgere i piani della donna è il giovane Stephen (Micheal Ward), che viene assunto al cinema Empire prima di entrare al college.

Hilary e Stephen si avvicinano ogni giorno sempre più, seppur in apparenza totalmente diversi, si ritrovano nella loro disillusione e nel bisogno di trovare qualcuno a cui appoggiarsi, almeno per un po’ di tempo.
I protagonisti dividono la loro esistenza su tre spazi: l’atrio del cinema, dove lavorano, il piano superiore dell’Empire, che rappresenta il loro spazio di intimità e fuga e, infine, come se fosse lontano da ciò, il mondo al di fuori del cinema.
E mentre Hilary e Stephen si scoprono e si tengono compagnia, è proprio il mondo là fuori che sembra invece virare verso il caos e la violenza. Si tratta infatti dei primi anni cosiddetti Thatcheriani, in cui tutta l'Inghilterra vivrà forti tensioni politiche, sociali ed economiche.
Proprio quando i due si separano e iniziamo a intravedere anche altri spazi, le due realtà - il cinema e la società fuori stante - si scontrano e l’impatto porta sì dolore e violenza, ma riporta i protagonisti a una condizione di realismo, in cui entrambi riescono finalmente a realizzarsi al di fuori del cinema Empire.

Empire of the Light cerca di racchiudere dentro il suo spazio temporale e ambientale importanti temi, quali la delicata situazione sociale degli anni ottanta, il razzismo e la salute mentale, così come proprio la malattia mentale. Tutto ciò viene percepito e raccontato dagli occhi di Stephen e Hilary, che per quanto possano vantare di due ottime interpretazioni, sembrano soffrire di una certa superficialità nel trattamento e nello sviluppo della loro caratterizzazione.
A rafforzare l’ideale di superficialità sono, purtroppo, anche i personaggi secondari, che per altro vantano grandissimi e validissimi attori quali Colin Firth e Toby Jones.

Se nella sceneggiatura quindi, è palese l’amore del regista verso il cinema - inteso anche e soprattutto come lo spazio fisico dove si risolvono i traumi, si liberano i demoni e si guarisce - tutta la pellicola sembra soffrire di un limite nel trattamento del soggetto e dei personaggi, che frena anche l’emotività.
A rendere magica l’esperienza visiva quindi, è l’intramontabile talento del direttore della fotografia Roger Deakins (candidato all’oscar per ben 16 volte), capace non solo di stupire per la bellezza delle scene, ma anche per attribuire alla luce un ruolo quasi primaria importanza, che prima si posa sul volto di Hilary, poi dona vita alla pellicola e poi mostra il mondo al di fuori in tutta la sua violenza.
Mentre ciò che rimane dentro alle sale di proiezioni non è nient'altro che felicità.